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C’è chi ha messo un tavolino fuori dal bar, con due tazzine sopra. Chi, invece, ha alzato la serranda, acceso le luci e nulla più. Chi, ancora, ha posizionato il tavolino e ha messo due lumini, simil votivi, quasi a certificare l’imminente morte del commercio, sempre che non ci sia un concreto aiuto dal Governo.

 

Ieri sera è andata in scena la protesta da parte di tantissimi esercenti venariesi vicini all’Ascom, che ha deciso di disobbedire e di alzare le serrande per un’oretta circa, dimostrando quanta voglia ci sia di tornare alla normalità, pur facendo i conti con l’emergenza Coronavirus.

 

“Speravamo di poter riaprire il 4 maggio e invece il Governo ha fatto slittare tutto tra il 18 maggio e il 1 giugno - spiega Christian Contu (Il Convito, via Mensa), presidente dell’Ascom Venaria. Si chiede al commercio un sacrifico troppo pesante, senza misure compensative. I commercianti ed i loro collaboratori con le loro famiglie non la pensano nello stesso modo. Non siamo d’accordo nel modo e nel merito. Davvero aprire un negozio o di un bar, dove entrerebbero una o due persona alla volta con guanti e mascherina, viene considerato più pericoloso che aprire una fabbrica con centinaia di lavoratori? Con queste scelte si condannano le imprese del commercio e della ristorazione al fallimento. Questa per noi era alta stagione, a breve ci sarebbero state cresime, comunioni, battesimi, la Festa delle Rose. Ora non ci sarà nulla. E le bollette arrivano, i debiti si accumulano e si rischia di dover lasciare casa storici dipendenti”.

 

Desiree Mistroni (De Florio, corso Garibaldi), essendo anche madre, fa una ulteriore osservazione: “Le scuole non riapriranno. A chi lasciamo i figli? E poi, questione finanziamenti. Il tasso zero non esiste. E una rata da 530 euro al mese, per quei famosi 25mila euro che lo Stato, tramite le banche, ci concede, sono davvero troppi. Perché si sommano a tutte le bollette, ai fornitori, ai dipendenti. E noi, come titolari, non vogliamo lasciare nessuno a casa. Di sole colazioni portate a casa e di pranzi preparati e consegnati in ufficio non si vive. Dobbiamo tornare alla normalità, ma in sicurezza. Dovrebbe esserci un confronto con chi, ogni giorno, fa questo mestiere”. 

 

Alessandro Trevisani (Nuova Cernaia, piazza Annunziata) non accetta le restrizioni da Coronavirus: “I tavoli a distanza di due metri l’uno dall’altro, due persone per tavolo a un metro l’una dall’altra. Vorrebbe dire sfruttare un locale per il 30%. A questo punto forse è meglio stare a casa altri mesi, ma ripartire al 100%. Perché secondo voi con le barriere in plexiglass, verrebbero a mangiare nei ristoranti?”.

 

Gianni Goffredo (Goffrey’s via San Marchese) ricorda anche il tema affitti: “Nel nostro caso abbiamo trovato i proprietari dei muri molto comprensivi. Con il delivery non possiamo vivere, ma con le nuove restrizioni come facciamo? Non riesco a mantenere i dipendenti e così facendo non riusciremo a reggere un altro inverno. I 600 euro mi servono a pagare due terzi della bolletta della luce”. 

 

Maria Lo Piccolo (Passami il Sale, via Mensa) e Carmen Fucarino (La Locanda via Mensa) hanno paura del futuro: “Se lo Stato non blocca le tasse, non obbliga le banche a stoppare i mutui per un anno, diventa veramente un dramma. Noi viviamo dello svago, di persone che vengono qui, vanno in Reggia, mangiano qualcosa e vanno via. A oggi non sappiamo come fare. Un ristorante è come un’azienda. Oggi avremmo bisogno noi della cassa integrazione, di un vero aiuto dallo Stato. Perchè abbiamo ammanchi per centinaia di migliaia di euro”.